ARGOMENTARE E DIMOSTRARE
[report provvisorio]

Descrizione sintetica della attività progettata
L'attività prevede la partecipazione di due classi (una quinta liceo scientifico e una terza liceo classico) ed è guidata da due sottogruppi di studenti, dodici per lo scientifico e sette per il classico. Dopo una preliminare lettura di alcuni testi che hanno contribuito a fornire ai ragazzi la dimensione problematica dei profondi rapporti tra matematica e filosofia, sono stati programmati due interventi in aula del prof. Bartocci. Il primo, già svolto, ha riguardato, attraverso esempi concreti, il problema della descrizione del moto e delle sue connessioni con il problema dell'infinito. A partire da questi esempi i ragazzi hanno in progetto di confrontare , esaminando materiale documentario originale, diversi approcci ("filosofici" e "scientifici") a uno stesso problema con l'intenzione di mettere in luce gli aspetti che più nettamente contraddistinguono le "argomentazioni filosofiche" dalle "dimostrazioni scientifiche". I risultati delle ricerche dei ragazzi vengono esposte in aula in modo da coinvolgere tutta la classe. Esse, inoltre, formano la base per la preparazione di un convegno, organizzato dagli stessi studenti, che dovrebbe segnare la conclusione delle attività. Il convegno è previsto per maggio e dovrebbe vedere la partecipazione di due studiosi (un filosofo e uno scienziato) di indubbia autorevolezza.
Obiettivi/risultati attesi.
Le finalità sono essenzialmente due:
1. la prima ha carattere generale, ossia si riferisce al potenziamento della riflessione critica e dell'autonomia del lavoro scolastico.
2. la seconda si riferisce invece all'approfondimento di contenuti disciplinari di matematica e di filosofia e delle loro interazioni sia reciproche, sia con altre discipline, quali la fisica (il problema dell'infinito, il problema del moto e la sua geometrizzazione, i concetti di dimostrazione e di spiegazione).
Scansione dell'attività


Relazione elaborata da:


Luca Attolini

Manuela Bisanti

Costanza Bognin

Antonio Carassiti

Marco Capellini

Sarah Da Col

Daniele Guido

Miriam Merenda

Roberta Miceli

Daniela Morandi

Valeria Pupella

Nicola Ratto


Anno scolastico 2005/2006

La scienza è costituita da una consapevole restrizione del campo di ricerca, mentre la filosofia può assumere a proprio oggetto qualunque ambito d’esperienza, compresa se stessa. Se esiste una filosofia della filosofia, non esiste una fisica della fisica. Infatti, il filosofo, nelle sue riflessioni, spazia in vari ambiti, dal concreto all’astratto, senza mai rivestire un ruolo di specialista. Non si sofferma mai sui fenomeni particolari di un argomento, ma cerca sempre di pervenire ad una spiegazione globale ed unitaria.



  1. La Dimostrazione


Con il termine dimostrazione si definisce generalmente lo sviluppo logico di un discorso. Una dimostrazione consiste nel verificare - nel senso di mostrarne la ragionevole verità- un predicato, una frase; infatti, attraverso vari passaggi - e utilizzando per esempio postulati- si rende innegabile un'affermazione. Nel corso dei secoli alcune dimostrazioni hanno scosso il mondo e la conoscenza, come ad esempio la dimostrazione che esistono numeri non periodici con infiniti decimali (cioè non presentano ripetizioni, somiglianze fra loro: quindi non possono essere ricondotti a frazioni irrazionali, cosa che costrinse Pitagora a far giurare ai discepoli - pena la morte - di non divulgare la notizia). Altre hanno definitivamente chiarito situazioni che erano sotto osservazione da secoli, come la dimostrazione dell'ultimo teorema di Fermat.

Un’analisi storico-epistemologica dell’idea di dimostrazione matematica rende evidenti due funzioni fondamentali, intimamente legate tra loro: convincere e spiegare. La dimostrazione ha l’obiettivo di convincere sia colui che lo elabora, sia i suoi interlocutori della verità di un dato enunciato (verità negoziata), ma anche l’obiettivo di spiegare, ovvero di chiarire i motivi per cui una certa affermazione sia vera.

Una dimostrazione, con un ampliamento del campo di ricerca, può essere superata, ma non può essere confutata se considerata nel suo ambito originario.

Forniamo un esempio: Newton e Einstein:

«Abbiamo finora attribuito il fenomeno della gravitazione all’azione di una forza che agisce tra le masse. Einstein dimostrò invece che la gravitazione è dovuta ad una curvatura dello spazio indotta dalla presenza di masse».

Pertanto, quanto detto da Newton continua ad essere vero se consideriamo le condizioni particolari che il nostro problema ci pone: le condizioni al contorno risultano quindi fondamentali.


Gabriele Lolli scrive: «La dimostrazione è presente ovunque in matematica; ne è la caratteristica essenziale, nel bene e nel male. Non c’è matematica senza dimostrazione. È vero che la matematica non si esaurisce in dimostrazioni e neanche può ridursi a esse la comprensione della matematica. C’è l’euristica per la risoluzione dei problemi, c’è la tecnica di calcolo in senso lato, e c’è l’aspetto della modellizzazione. Ma la dimostrazione segna in genere il passaggio alla matematica vera e propria da una fase propedeutica di acquisizione di abilità e nozioni che si dicono matematiche ma che sono solo il prolungamento della padronanza fisica dell’ambiente esterno e che servono a un controllo più efficiente dello stesso».

Non è da trascurare neppure il fatto che la dimostrazione coinvolge importanti aspetti della vita di classe, quali la necessità di imparare ad argomentare rispettando le regole del gioco; e come dice Evelyn Barbin «la dimostrazione è un atto sociale che si realizza in un microcosmo di interlocutori che condividono una stessa razionalità».



Cerchiamo di comprendere attraverso un esempio famoso la differenza fra la funzione della dimostrazione come ragionamento atto a convincere e la funzione della dimostrazione come mezzo di spiegazione all’interno di una teoria.

Una delle prime testimonianze dirette di una dimostrazione si trova in un dialogo di Platone, il Menone, scritto nel quarto secolo a.C.. In questo caso la dimostrazione può essere addirittura confusa con un’argomentazione atta a far scoprire allo schiavo una verità geometrica. Nel dialogo Socrate mostra a Menone come uno schiavo illetterato possa, se opportunamente guidato, giungere a ricostruire una dimostrazione di un risultato matematico e, cioè, che, dato un quadrato ABCD, il quadrato costruito sulla diagonale AC è il doppio di ABCD. Anche nell’attività matematica odierna si conducono alcune dimostrazioni sulla falsariga del dialogo platonico. Vi è però una differenza sostanziale: la dimostrazione di Socrate si basa su nozioni comuni che, però, non vengono esplicitate all’inizio del dialogo. Tali nozioni sono per così dire implicitamente condivise da Socrate, da Menone e dallo schiavo e vengono esplicitate solo nel momento in cui sono necessarie a proseguire nell’argomentazione.

Da Euclide in poi, una dimostrazione è invece eseguita all’interno di una teoria nella quale gli enunciati condivisi sono esplicitati all’inizio dell’attività dimostrativa. E questa è una prima differenza con le argomentazioni, dove gli enunciati condivisi non sempre sono esplicitati.

Il dialogo fra Socrate e lo schiavo si gioca tutto su una successione di domande, risposte e suggerimenti che portano alla fine lo schiavo alla risposta corretta. Le domande e i suggerimenti di Socrate hanno lo scopo di arrivare ad enunciati che lo schiavo condivide, perché è in grado, grazie all’azione maieutica di Socrate, di ricordare. Ma ci sono diversi modi di convincere, di giustificare: in Cina e in India, per esempio, si utilizzavano le cosiddette “dimostrazioni visive”, che oggi sono tornate in auge con la “computer graphic”. Il disegno era considerato sufficiente a spiegare, a giustificare. Se si pensa all’etimologia del termine “teorema”, che vuol dire “spettacolo”, “rappresentazione”, queste diverse forme di dimostrazione di un teorema non sono poi così strane. Le nostre tradizioni culturali ci hanno portato a identificare la dimostrazione con un discorso: la rappresentazione è sul piano del dire, più che del vedere, e, in ogni caso, queste tradizioni hanno subito varie modifiche, tanto è vero che il concetto attuale di dimostrazione (e quindi anche quello di teorema) è assai diverso da quello che erano per Euclide.

La tradizione euclidea ha dovuto fare i conti con Cartesio e l’argomentazione ha dovuto fare i conti con i calcoli. Si assiste ad una sorta di situazione paradossale che può essere così descritta: in geometria la rappresentazione è molto vicina all’oggetto, ma è difficilmente manipolabile, trasformabile e quindi è lontana dallo spiegare il perché l’oggetto rappresentato gode di certe proprietà. In algebra le rappresentazioni sono lontane dall’oggetto, ma sono facilmente manipolabili, trasformabili e quindi sono particolarmente adeguate a esprimere dimostrazioni. Ma si tratta di dimostrazioni che si differenziano fortemente dalle argomentazioni. La rottura, le discontinuità tra argomentazioni e dimostrazioni condotte trasformando i segni di un linguaggio come quello dell’algebra sono fortissime.



  1. I postulati


Per quanto concerne la dimostrazione è necessario fare riferimento anche ai postulati. Gli assiomi o postulati sono le proposizioni che enunciano le proprietà degli enti geometrici fondamentali. Sono enunciati che si prendono per buoni e non sono dimostrati. Gli assiomi non devono essere in contraddizione tra loro e devono essere indipendenti tra loro. Infatti ogni sistema di postulati, pur arbitrariamente scelto, deve però soddisfare le tre proprietà caratteristiche di non contraddittorietà, indipendenza e completezza. Ogni costruzione deduttiva si basa su postulati: questi devono essere compatibili, vale a dire tali che da essi non possa conseguire alcuna contraddizione. Contrariamente all’uso che si fa della parola in epistemologia, nella matematica contemporanea gli assiomi non sono necessariamente delle verità evidenti bensì enunciati da cui partire e da usare nelle deduzioni per giungere a dimostrare teoremi. Nella logica matematica gli assiomi di una teoria sono un ben definito insieme di formule che possono essere usate nei sistemi formali per costruire dimostrazioni. In questo ambito si fa una netta distinzione tra le due nozioni di assioma logico e assioma non-logico.


Gli assiomi logici sono formule che sono valide, ovvero formule che sono soddisfatte da ogni modello (ovvero da ogni struttura) per ogni funzione di assegnazione alle variabili. In termini più colloquiali, gli assiomi sono enunciati che sono veri in ogni possibile universo, nell'ambito di ogni possibile interpretazione e con ogni assegnazione di valori. Una formula è un assioma logico, se è valida. Quindi dovrebbe essere necessario fornire una dimostrazione della sua validità (verità) in ogni modello. Questo si trova in conflitto con la nozione classica di assioma e costituisce almeno una delle ragioni per le quali, in logica matematica, gli assiomi non sono considerati come enunciati ovviamente veri o evidenti di per sé. Gli assiomi logici, essendo mere formule, sono privi di ogni significato; il punto è che quando sono interpretati in ogni universo, essi valgono sempre, quali che siano i valori assegnati alle variabili. Dunque questa nozione di assioma è forse la più vicina al significato che si intende attribuire alla parola: gli assiomi sono veri, al di là di tutto.


Gli assiomi non-logici, nell'ambito di una teoria sono formule che svolgono il ruolo delle assunzioni specifiche della teoria stessa. Servendosi degli stessi assiomi logici si possono sviluppare le analisi di due differenti strutture, per esempio i numeri naturali e gli interi; gli assiomi non-logici hanno il compito di catturare quello che è specifico di una particolare struttura (o di una specie di strutture, come i gruppi algebrici). Quindi gli assiomi non-logici, contrariamente agli assiomi logici, non sono tautologie. Termine spesso considerato sinonimo di assiomi non-logici è postulato. Quasi ogni teoria matematica moderna parte da un sistema di assiomi non-logici. Si pensava che in linea di principio ogni teoria potesse essere assiomatizzata in questo modo e potesse essere formalizzata fino ad un puro linguaggio di formule logiche. Questa prospettiva si è rivelata impossibile. Da questo segue il ruolo degli assiomi non-logici, che devono semplicemente costituire un punto di partenza in un sistema logico. Dato che sono fondamentali nello sviluppo di una teoria, in genere risulta opportuno che nel discorso matematico essi siano chiamati semplicemente gli 'assiomi' della teoria, ma, va ribadito, non per esprimere che essi sono enunciati veri e neppure per significare che essi sono assunzioni dotate di verità. Dunque un assioma è una base elementare per un sistema logico formale e insieme alle regole di inferenza definisce un sistema deduttivo. Sono numerose le teorie che si basano su un proprio sistema d’assiomi non-logici: aritmetica, geometria euclidea, algebra lineare, analisi reale, teoria degli insiemi, geometria proiettiva, probabilità. Inoltre vengono periodicamente proposte nuove teorie del suddetto genere e vengono formulate loro varianti; queste risultano interessanti per svariati motivi: in quanto più essenziali, o al contrario più intuitive; in quanto più generali o viceversa in quanto più specifiche.



  1. L’argomentazione


Argomentare: ragionamento volto a dimostrare una tesi.

Argomentazione: insieme di proposizioni, una delle quali viene dedotta dalle altre come logica conseguenza. L’argomentazione si basa sulla consequenzialità di affermazioni logiche per giungere ad una verità già prestabilita da chi vuole argomentare. Dimostrazione significa invece verificare nel senso di dimostrare la ragionevole verità, un predicato, una frase.

Infatti attraverso diversi passaggi, utilizzando per esempio i postulati, si rende innegabile affermazione. Il fine dell’argomentare è quello di giungere ad una conclusione che sia il più possibile, se non proprio vera, la più prossima al vero.

L’argomentazione deve quindi avere tra le sue prerogative quella di mantenere una consequenzialità tra le proposizioni che la costituiscono. Inoltre Aristotele insisteva nel dire che, ciò che è necessario che sia, è che ciò che segue a una premessa sia implicito nella premessa. Naturalmente il sillogismo, per essere inoppugnabile occorre che sia deduttivo, perché muovendo da qualcosa di necessario, ciò che potrà dedursene sarà qualcosa di altrettanto necessario, la conclusione sarà di conseguenza necessaria pure lei, e questo è il tipo di argomento deduttivo che perlopiù si cerca di mettere in atto in ciascuna argomentazione. Vediamo l’esempio più famoso di Aristotele: Tutti gli animali sono mortali, l’uomo è un animale, dunque l’uomo è mortale. Ciascuna argomentazione trae sempre la propria necessità da quelle precedenti.

In conclusione l’argomentazione necessita, così come è pensata generalmente, di un obiettivo, e questo obiettivo deve essere il vero.


Sviluppare l’argomentare


Argomentare e congetturare caratterizzano le attività che favoriscono il passaggio dalle nozioni intuitive e dai livelli operativi a forme di pensiero deduttivo e a livelli astratti e virtuali.

Diamo ora una definizione di congettura: la congettura è una proprietà che, per alcune ragioni che crediamo vera, ma di cui non siamo completamente sicuri.

Le congetture sono il motore dell’attività matematica: quando si fa una congettura si prova prima ad argomentare la sua verosimiglianza, a sperimentarla su esempi, e quando ci si è convinti della sua verità, si prova a dimostrarla. Se non ci si riesce, si prova a demolirla con un controesempio. La congettura è una competenza tipica della matematica ma anche di altri ambiti come quello sperimentale e linguistico, e quindi si esplica in ogni contesto della vita culturale dell’uomo. Inizialmente la congettura porta a concentrare il pensiero su un fenomeno particolare, a circoscriverlo, ad estrarlo dal contesto, ad esprimerlo, cercando di formularlo senza ambiguità. Segue poi la fase dell’esplorazione-pensiero libero, ovvero l’argomentare. Infine c’è la dimostrazione, ovvero la spiegazione dentro un contesto definito. Portare quindi a codificare intuizioni matematiche riguardo ad un’ampia gamma di fenomeni, fare rifletter sulle proprietà e sulle strutture di oggetti e sistemi per costruire modelli, verificare se le cose devono essere così, in definitiva una dimostrazione matematica rappresenta la codifica formale di modelle di ragionamento e giustificazione. Per arrivare ad una dimostrazione consapevole, è prima necessario sviluppare le competenze argomentative. Essenziale è riconoscere che il ragionamento e la dimostrazione sono attività essenziali e fortemente efficaci per la matematica: pertanto spingere a formulare la congettura, a indagare su congetture matematiche, cercando di sviluppare e di valutare ragionamenti matematici facendo scegliere vari tipi di ragionamento e metodi di dimostrazioni appropriate. Se accettiamo che fare la matematica implica scoprire, la congettura è la strada principale per scoprire. Una componente essenziale nell’imparare a ragionare matematicamente è la valutazione dell’argomentazione matematica. Ragionare matematicamente è un’abitudine della mente e come tutte le abitudini può essere sviluppata attraverso l’uso coerente.



  1. Scienza e dimostrazione per Aristotele


«Se, pertanto, il conoscere è quale abbiamo posto, è necessario anche che la conoscenza apodittica proceda da cose vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione: ché in questo modo i principi saranno propri di ciò che si dimostra. [...] E chi vorrà possedere la scienza che procede mediante dimostrazione non soltanto deve rendere maggiormente noti i principi e credere maggiormente ad essi che a ciò che è dimostrato, ma nient’altro dev'essere per lui più credibile e più noto che gli opposti dei principi dai quali procederà il sillogismo dell'errore contrario, se davvero chi conosce in senso assoluto deve essere inamovibile


Se analizziamo l’uso del termine nel linguaggio comune, la dimostrazione rimanda all’intenzione del soggetto di far riconoscere come veritiero un assunto o una proposizione. La dimostrazione parte, infatti, da assunti di base che possono essere o di natura assiomatica o di natura teorematica e che in ogni caso risiedono nell’ambito di un ragionamento deduttivo. L’esempio maggiormente significativo che la storia ci consegna è senza dubbio la geometria di Euclide. Ricorrendo ad un articolato insieme di nozioni (postulati, definizioni, teoremi, corollari) lo spirito matematico degli antichi greci dominò il pensiero scientifico fino al Rinascimento e solo la nascita dell’algebra nel sedicesimo secolo originò un nuovo impulso. Fino alla formulazione del calcolo integrale, in molti seguirono percorsi deduttivi e intuizioni senza un progetto organico che guidasse la disciplina. I contributi furono enormi, ma solo con la definizione della teoria ad opera di Augustin-Louis Cauchy (1789-1857) e di Bernhard Riemann (1826-1866) si può parlare di una sua fondazione matematica rigorosa. Con i suoi risultati, sicuramente eccezionali, la matematica può certamente essere considerata, insieme alla logica, la scienza che tra le altre ha sistematizzato in maniera così rigorosa il suo apparato tanto da essere presa a modello dalle altre scienze ( e, infatti, sono chiamate scienze formali), sia dal punto di vista del metodo che dal punto di vista interpretativo della realtà.

La dimostrazione parla il linguaggio specifico.

Il ragionamento, infatti, che volesse argomentare senza ricorrere al suo proprio specifico linguaggio, incorrerebbe come minimo nell’accusa di banale generalizzazione e perderebbe la sua pretesa di veridicità.

Già Aristotele aveva affrontato il problema. La sua logica vuole mostrare “come proceda il pensiero quando pensa, quale sia la struttura del ragionamento,..,come sia possibile fornire dimostrazioni, quali tipi di dimostrazioni esistano, di che cosa sia possibile fornire dimostrazioni e quando.”

Il nome, cioè organon –strumento-, introdotto da Alessandro di Afrodisia, ben chiarisce il compito e il fine della logica aristotelica. Lo Stagirita chiamava, però la logica con il nome analitica ( análysis, vale a dire risoluzione) per evidenziare « il metodo con cui noi, partendo da una data conclusione, la risolviamo appunto negli elementi da cui deriva, cioè nelle premesse e negli elementi da cui scaturisce e, quindi, la fondiamo e la giustifichiamo.»

Nelle categorie viene studiata la forma più semplice della logica, considerando di una proposizione gli elementi non ulteriormente indivisibili, cioè le parole di cui non si può dire che siano termini veri o falsi perché le loro sole combinazioni sono suscettibili di giudizi di verità o falsità.

« Delle cose che si dicono senza nessuna connessione, ciascuna significa o la sostanza o la quantità o la qualità o la relazione o il dove o il quando o l’essere in una posizione o l’avere o il fare o il patire », dice Aristotele. E se da una prospettiva metafisica le categorie rappresentano i significati fondamentali dell’essere, dal punto di vista logico esse dovranno essere i generi sommi ai quali riportare i termini della proposizione.

Così, dopo il discorso sulla generalità delle categorie, viene esposto il punto fondante ogni dimostrazione, e cioè il giudizio. Unendo i termini tra loro noi enunciamo un giudizio che è l’atto con cui noi affermiamo o neghiamo un concetto di un altro concetto, e l’espressione logica del giudizio è l’enunciazione o la proposizione.

Giudizio e proposizione sono dunque la prima forma di conoscenza: cogliendo un nesso tra soggetto e predicato, percepiamo il vero o il falso.

Ed è ben noto quale sia per Aristotele il ragionamento perfetto: il sillogismo.

Ma a questo punto si giunge al nodo essenziale per la dimostrazione: il sillogismo è secondo Aristotele l’essenza stessa del ragionare; ci mostra pertanto la struttura dell’inferenza, prescindendo però dal contenuto di verità delle premesse e quindi della conclusione. Ma, la dimostrazione ( o sillogismo scientifico o dimostrativo) esige, oltre alla condizione di correttezza formale, la condizione di verità. Infatti, « Le premesse (…) devono essere vere; poi devono essere prime, ossia non bisognose a loro volta di ulteriori dimostrazioni, più note e anteriori, ossia di per sé intelligibili e chiare e più universali delle conclusioni, perché ne debbono contenere la ragione.».

Quindi, le premesse devono essere vere, conosciute in modo altro rispetto all’uso di sillogismi, altrimenti percorreremmo a ritroso una catena infinita. Pertanto, abbiamo bisogno di un processo non più deduttivo, come il sillogismo scientifico invece fa deducendo il particolare dall’universale. Le verità universali si colgono non più tramite induzione o tramite intuizione. L’induzione ci conduce dal particolare all’universale, non mediante il ragionamento ma mediante astrazione. Grazie all’intelletto percepiamo i principi primi comuni a tutte le scienze, ovvero il principio di non-contraddizione e il principio d’identità. Ed essi sono veri perché così garantiti: sono definizioni, e perciò spiegazioni della sostanza di una cosa; sono assiomi, vale a dire asserzioni che non possono essere negate perché chi le nega se ne avvale contemporaneamente negandole (la famosa prova per confutazione o élenchos); sono ipotesi, cioè fondamenti di principi propri di ciascuna scienza particolare; sono infine postulati perché posti anticipatamente per chiarezza o per didattica.

Tante altre sono state le logiche nate da critiche a quella di Aristotele, dal Nuovo Organo di Bacone, al Sistema di logica di Stuart Mill, alla logica dell’infinito di Hegel.

L’unico appello che la dimostrazione rivolge a colui cui vuole parlare è quello di prendere per buoni dei principi primi non come atto di fede della ragione, ma come abito stesso della ragione. Questi stessi principi sono universali, valgono quindi per qualunque persona e per qualunque tipo di argomentazione si voglia addurre. Viene in tal modo giustificato perché ogni dimostrazione possa valere per ogni scienza. Solo a questo punto subentra la specificità del linguaggio dimostrativo. Il problema delle premesse che pose Aristotele, non può essere messo in dubbio. Ma per argomentare di questioni pertinenti una determinata branca del sapere occorre essere specifici e precisi per non incorrere in banali generalizzazioni. Ogni termine del linguaggio, rimanda ad una ben precisa connotazione semantica, quindi un uso non rigoroso dei termini può inficiare lo stesso procedimento dimostrativo. Pertanto qualunque scienza deve, durante una dimostrazione, parlare il linguaggio specifico, proprio perché deve poter dire la sua stessa sostanza, garantita in ultima istanza da assiomi condivisi. Proprio dimostrazioni acquisite e condivise diventano basi a cui poter attingere per nuove dimostrazioni. E’ così che nasce un patrimonio culturale.



  1. Argomentazione per Aristotele


Se dovessimo fare una storia della logica antica fondandoci sul termine logica, da questa storia dovremmo proprio escludere Aristotele, perché Aristotele non usa mai questo termine; questo termine entra nel linguaggio filosofico posteriormente, probabilmente con gli stoici. Aristotele chiama l'insieme delle sue ricerche sull'argomentazione e sulla predicazione con il nome di analitica, intendendo con questo termine il procedimento d’analisi, cioè di risoluzione di una proposizione nei suoi elementi componenti e di una proposizione in base alle premesse da cui essa scaturisce. Ciò non di meno, l'Analitica d’Aristotele non soltanto fa parte della storia della logica, ma è anche certamente la massima espressione delle ricerche su questo tema nell'antichità. Aristotele ha consegnato a queste riflessioni molte opere che sono state complessivamente indicate con il titolo di Organon, cioè di strumento; questo titolo non è di Aristotele, ma dei suoi editori successivi che volevano così indicare il carattere strumentale di queste ricerche rispetto alle varie scienze, nel senso che la ricerca dell'argomentazione corretta è preliminare e, in un certo senso, strumentale perché tutte le scienze possano fare ragionamenti formalmente validi. Naturalmente la massima espressione dell'analitica aristotelica è costituita dai Sillogismi, cioè dagli Analitici primi e dagli Analitici secondi, che sono le due grandi opere in cui Aristotele espone la teoria del sillogismo sia in generale sia, più specificamente, del sillogismo scientifico.

Aristotele, negli Analitici primi, offre una teoria generale del sillogismo, cioè una teoria che va bene sia per il sillogismo che parte da premesse vere, sia del sillogismo che parte da premesse probabili.

Negli Analitici secondi si sofferma invece sul sillogismo che Aristotele chiama apodittico, cioè dimostrativo, e che è quello che parte da premesse vere e questa trattazione gli serve, appunto, per elaborare la sua teoria della definizione, essendo la dimostrazione e la definizione i due concetti più importanti dal punto di vista della scienza, del sapere scientifico.

Ma fanno a pieno titolo parte di questo gruppo di opere aristoteliche anche i Topica, cioè la raccolta dei topoi, dei luoghi comuni delle argomentazioni dialettiche, gli Elenchi sofistici, cioè la serie di confutazioni di argomenti particolarmente in voga tra i sofisti e sia soprattutto i due trattati, Le Categorie e il De Interpretatione, in cui Aristotele esamina sia il valore e il senso dei termini detti fuori di ogni connessione, per esempio i nomi e i verbi staccati gli uni dagli altri, sia la teoria generale della proposizione come connessione di un soggetto e di un predicato. Questo è il corpus delle opere che vengono definite logiche, e in cui per lungo tempo nella storia del pensiero è stata vista la realizzazione massima della riflessione umana su questo campo.

Nelle prime righe dei Topici Aristotele definisce anche il concetto di argomentazione, come «discorso nel quale, poste alcune cose, qualcosa di diverso da ciò che è posto risulta necessariamente mediante ciò che è posto», con riferimento quindi il particolare nesso inferenziale che verrà esplorato negli Analitici Primi, dando luogo alla teoria del sillogismo. Si parla subito dopo di dimostrazione, « quando l’argomentazione risulta da asserzioni vere e primitive, oppure da asserzioni tali che hanno il fondamento della conoscenza, ad esse relativa, mediante alcune asserzioni vere e primitive», tema di indagine degli Analitici Secondi. Infine i Topici si occupano del metodo per costruire, per ogni problema che possa essere proposto, un’argomentazione dialettica, «che argomenta muovendo da opinioni notevoli», cioè quelle generalmente accettate.

Il percorso ideale che collega la teoria delle inferenze valide (analitica o sillogistica) alla teoria dell'argomentazione dimostrativa (apodittica), a quella dell'argomentazione probabile (dialettica), e a quella dell'argomentazione persuasiva (retorica), potrebbe essere interpretato come un progressivo allontanamento dal tipo di argomentazione ideale, la cui validità è controllabile mediante schemi formali, fino ad arrivare alle fallacie dell'argomentazione eristica considerate nelle Confutazioni sofistiche. Una valutazione di segno opposto vedrebbe invece in tale processo un graduale ampliamento dell'ambito di indagine, per includervi quegli aspetti del ragionare non catturati dal punto di vista che mette a fuoco la correttezza delle strutture inferenziali, e cioè il punto di vista propriamente logico.



  1. Differenze tra dimostrazione e argomentazione


Nella società contemporanea l’uditorio sembra più attento ed interessato ad un discorso con veste scientifica, molto meno ad uno per cosi dire non scientifico. Se il discorso si origina da principi primi, di per sé evidenti, oppure si avvale di principi fisici o di procedimenti di tipo matematico, esso giunge a conclusioni verificabili, perciò è degno di interesse; in caso contrario non viene ritenuto degno di attenzione. Nel primo caso l’uditorio, desideroso di conoscere i risultati della dimostrazione, si predispone a seguire; nel secondo in assenza di nulla di verificabile, non vede garantita la verità delle conclusioni. Se poi il discorso scientifico viene sostenuto da dati esperenziali, esso acquista valenza di verità, mentre il secondo, restando nella sfera dell’opinabilità rappresenta quasi una perdita di tempo. Già nel mondo greco questa frattura doveva essere presente se lo stesso Aristotele sentì il bisogno di codificare i termini rigorosi la differenza tra ciò che è vero, e quindi dimostrabile, e ciò che si fonda su opinioni, e quindi argomentabile. «E’ dimostrazione quando l’argomento risulta da asserzioni vere e primitive, oppure da asserzioni tali che hanno il fondamento della conoscenza, ad essa relativa, mediante alcune asserzioni vere e primitive; mentre argomentazione dialettica è quella che argomenta muovendo da opinioni notevoli. Sono asserzioni vere e primitive quelle che hanno la loro garanzia non per virtù d’altro, ma per se stesse(non si deve infatti ulteriormente ricercare nell’ambito dei principi delle scienze il perché di essi, ma ciascuno deve per se stesso essere credibile); sono opinioni notevoli invece quelle che costituiscono opinione di tutti, o dei più, o dei sapienti, e, se di questi, o di tutti, o dei più, o dei più noti e stimati».

Il discorso filosofico, con la sua ricerca di verità, con la sua concatenazione logica, stringente almeno quanto quella dei discorsi scientifici, non s’interessa della cosiddetta verità delle scienze esatte, ma della verità filosofica che non vuole essere definitiva, che cerca anzi la sua incontrovertibilità, la sua inconfutabilità, la sua innegabilità logica: essa non parte da principi a priori, va invece alla ricerca di un punto fermo da cui partire, non fondandosi su un principio veritativo quanto sulla confutazione di ogni sua negazione, aperta addirittura a nuove analisi e confutazioni che la storia dl pensiero possa muoverle. Il testo filosofico, infatti, è argomentazione e non semplice descrizione o asserzione: non è prescrittiva e quando lo diventa, si struttura in modo tale da giustificare ogni affermazione che esso sostiene. Nel testo filosofico non si dà nulla per scontato come avviene nei testi delle scienze esatte: queste partono da assiomi, postulati, definizioni primitive che non possono essere messe in discussione e seguendo una concatenazione logica giungono a dimostrare i teoremi. Il testo filosofico non ha assiomi, non ha verità precostituite, ma mette in discussione gli stessi principi cercando di giungere ad un principio su cui costruire, attraverso una serie concatenata di considerazioni, delle conclusioni che si è soliti definire sistemi. Il filosofo, non potendo riferirsi ad una serie di postulati indiscutibili, è costretto a distruggere ogni ipotesi, a sostenere le sue affermazioni ponendole egli stesso in discussione, difendendole dalle possibili obiezioni di un ipotetico uditorio. Per il filosofo, l’argomentazione deve essere non solo possibile, ma anche necessaria, deve essere ricerca di verità e non semplice retorica. Questa è la struttura del testo filosofico e come ricerca va ben al di là di una verità ‘confezionata’ come sembra essere la cosiddetta verità scientifica.

Inoltre, partendo dal fatto che ‘spiegare è generalizzare’, obiettivo a cui tendono sia la scienza che la filosofia, se quest’ultima prende in considerazione l’uomo, il mondo, la storia, la metafisica, e quindi si occupa anche di ciò che è astratto, tali argomenti non sono invece presi in considerazione dalla matematica. Il filosofo assolutizza il proprio pensiero, contrariamente al matematico. [Reinchebachpag. 20]

Assume un’importanza rilevante l’indagine sulle modalità con cui, nella costruzione del discorso scientifico, da Aristotele a Galeno, si dispongono i rapporti tra dimostrazione e argomentazione. In Galeno, funzionale anche alla polemica contro gli Stoici, è presente un ampio dibattito sul linguaggio della filosofia, che deve ispirarsi all'ambito lessicale dell'epoca classica, principio di individuazione per i dotti, che costituiscono una comunità capace di travalicare i confini del tempo. Un'ulteriore articolazione di tale ricerca è rappresentata dallo studio, relativo al periodo ellenistico, del ruolo svolto dalla retorica e della funzione del discorso rispetto al tema della verità e rispetto all'immagine di sé che si vuole istituire.


Argomentare e dimostrare sono due processi compresenti nel fare matematica e si distinguono per struttura logica del discorso e processi cognitivi messi in azione, messi in atto dai differenti obiettivi che li generano e producono differenze significative perché mettono il soggetto su due piani molto vicini ma sostanzialmente diversi.

L’argomentazione matematica è diversa dall’argomentazione retorica, comunemente usata nel linguaggio naturale. Il suo obiettivo consiste nello stabilire la verità di un enunciato attraverso l’esibizione di argomentazioni convincenti(tenendo però conto della struttura teorica).

La dimostrazione, invece, ha l’obiettivo di stabilire non solo la verità di un enunciato, ma anche la sua deducibilità dai principi della teoria(cioè i motivi per cui è vero).

Entrambi i processi si sviluppano attraverso una concatenazione di deduzioni, ma nel ragionamento argomentativo la deduzione viene fatta ricorrendo a principi assunti secondo criteri di pertinenza e di plausibilità, mentre in una dimostrazione c’è il riferimento costante(esplicito o sottinteso)ai principi base della teoria.

Le argomentazioni seguono a livello delle regole di deduzione quelle della logica naturale arrivando talvolta a conclusioni che aggiungono informazioni all’enunciato di partenza nell’intento di descrivere meglio il contenuto semantico, correlando a volte delle deduzioni solo semanticamente ma non logiche(pensiero analogico).


Il ragionamento

Esistono teorie del ragionamento all'interno di discipline tanto diverse quanto la logica, la retorica, la psicologia, la filosofia della scienza, l'intelligenza artificiale, in dipendenza dagli specifici punti di vista che la complessità semantica del termine impone. Nel linguaggio comune, le espressioni ragionamento e ragionare sono di uso frequente; come sinonimi sono proponibili argomentare, trarre conclusioni, spiegare o anche, in contesti di discorso più specifici, dimostrare, derivare, dedurre. Ogni termine quasi equivalente nel significato a ragionare focalizza aspetti particolari dell'attività fondamentale dell'usare la ragione, dell'avanzare ragioni per sostenere qualcosa.

Da un punto di vista molto generale, però, ragionare sembra corrispondere al comportamento manifestato linguisticamente, attraverso il quale non ci si limita a fare affermazioni, ma si danno ragioni per giustificarle. Lo schema di un ragionamento contiene quindi l'affermazione che s’intende sostenere (tesi), le assunzioni esplicitamente portate a favore della tesi, una base argomentativa (insieme di assunzioni implicite) lasciata sottintesa. Ragionare equivale quindi a concatenare proposizioni in modo tale che si possa trarre una conclusione (la tesi) sulla loro base.

Già a questo livello di analisi emergono due aspetti essenziali dell'oggetto in esame: uno riguarda i tipi di vincoli che collegano tra di loro gli anelli dell'argomentazione perché possa dirsi tale, invece che un semplice insieme di proposizioni; l'altro ha a che fare con il suo contenuto semantico e con il riferimento a sistemi di conoscenze sul mondo attraverso la base argomentativa. Questi aspetti sono distinguibili nei diversi tipi di ragionamento utilizzati nel contesto generale del linguaggio di senso comune e nei linguaggi specialistici delle scienze. Le teorie scientifiche sono strutture argomentative complesse sulla cui base sono giustificate determinate ipotesi esplicative. Il ragionamento scientifico si presenta come una forma di dimostrazione, con differenze non trascurabili a seconda che si tratti di elaborare un'ipotesi empirica, collegandola all'esecuzione di esperimenti, come in fisica, oppure che si tratti di dimostrare un teorema a partire dagli assiomi di una scienza formale, come in geometria. Nonostante il divario tra ricerca sperimentale e processo deduttivo, il ragionamento scientifico ha alcune proprietà costanti: mira al conseguimento della verità attraverso la mediazione di altre proposizioni già note come vere o comunque accettate; si rivolge ad un uditorio potenzialmente universale, cioè a chiunque possa acquisire la competenza di comprendere e giudicare il discorso della scienza; le sue basi argomentative sono proposizioni di carattere generale (ipotesi empiriche, leggi, assiomi) formulate in un linguaggio specialistico che tende ad eliminare ogni possibile ambiguità.

Dal ragionamento scientifico si distinguono le argomentazioni che, per le caratteristiche intrinseche, per il contesto in cui sono formulate e per le finalità che intendono raggiungere, offrono minori garanzie per quanto riguarda la loro portata veritativa. Costitutive dell'uso ordinario del linguaggio, ma presenti anche in contesti più specifici, possono essere considerate sotto l'aspetto cognitivo o sotto l'aspetto persuasivo, o addirittura essere idealmente suddivise in due gruppi, a seconda che in esse siano dominanti gli elementi cognitivi oppure quelli persuasivi. L'argomentazione cognitiva mira ancora a raggiungere conoscenze vere, o comunque plausibili e ragionevoli. Si rivolge ad un uditorio il più ampio possibile e le sue basi argomentative possono consistere nell'osservazione di fatti come in generalizzazioni anche collegate a scelte di valori, sulle quali si suppone o si ricerca il consenso.

L'argomentazione persuasiva mira appunto alla persuasione. Si rivolge ad un uditorio particolare, in una data situazione di spazio e di tempo, con lo scopo di influire sulla sfera affettiva ed emotiva dei singoli, e le conoscenze generali che eventualmente intervengono nelle sue basi argomentative sono subordinate al fine del persuadere.

La tipologia introdotta si basa su distinzioni tanto antiche quanto il pensiero aristotelico e apre uno spiraglio su temi legati al difficile rapporto tra logica e retorica. Corrisponde però a idealizzazioni operate sull'effettivo uso linguistico dell'argomentare tanto nella scienza come al di fuori di essa. Non sempre, ad esempio, un'argomentazione può essere detta solo cognitiva o solo persuasiva e anche per quel che riguarda il ragionamento scientifico non sono da escludere casi in cui emergono aspetti dell'argomentazione persuasiva. Inoltre la persuasione costituisce una componente motivazionale che accompagna l'argomentare in diversi contesti, anche in quello privatissimo del soliloquio.

Tuttavia, al di sotto delle caratteristiche proprie di ciascun tipo permangono comuni la struttura inferenziale e la funzione probatoria: ragionamento scientifico e dimostrazione, argomentazione cognitiva e persuasiva sono strumenti linguistici per garantire a diversi livelli l'accettazione razionale di una tesi mediante il collegamento con altre proposizioni già condivise (perché accertate come vere o verosimili o comunque avanzate come condivisibili).


La logica della mente e la logica della matematica:

Il punto decisivo è la nozione di regola inferenziale. In classe durante un’attività dimostrativa esplicitiamo gli assiomi di una teoria, ma non sentiamo il bisogno di esplicitare le regole inferenziali utilizzate nelle dimostrazioni in quella teoria. Ebbene una delle cause più forti di discontinuità tra argomentazioni e dimostrazioni sta proprio nel fatto che quando argomentiamo o dimostriamo utilizziamo regole inferenziali fortemente differenti.

Le regole delle argomentazioni non sempre sono in consonanza con le regole inferenziali della logica classica che utilizziamo, più o meno esplicitamente quando dimostriamo, ma, anzi, spesso sono contro di esse. Quando argomentiamo tendiamo ad avvicinarci alle regole della logica con la quale la mente umana interpreta la realtà.

Il ragionamento di senso comune non è monotono. Le conclusioni che traiamo in genere sono solo di carattere probabilistico e nuove informazioni possono modificarle sostanzialmente. In genere ragioniamo su esempi tipici e da essi traiamo conseguenze che siamo pronti a ritrattare se scopriamo di trovarci in situazioni atipiche. Questo atteggiamento è necessario per effettuare inferenze in tempi ragionevoli.

Nella logica dimostrativa non è così. L'inferenza logica utilizzata è monotona, ossia nuove premesse non possono diminuire il numero di conclusioni che si è in grado di fare con un insieme dato di premesse. La verità delle conclusioni risulta invariante per ogni possibile interpretazione. Avviene così che il modo di compiere inferenze logiche per convincere di una dimostrazione sia differente da quello per dimostrare all’interno di una teoria.




  1. Differenze tra matematica e filosofia


Da sempre vi è un rapporto indisgiungibile tra matematica e filosofia: già nell’antichità vi erano stati notevoli tentativi di avvalersi della matematica in ambito filosofico e non: è bene dire che spesso la matematica finiva lei stessa per diventare una forma di filosofia. Prendiamo il caso di Eratostene, vissuto tra il 280 e il 200 a.c. , che arrivò a calcolare il valore della circonferenza della Terra in modo molto preciso. Lo stesso Talete formulò il famoso teorema che porta il suo nome e che afferma che un fascio di rette parallele determina su due trasversali insiemi di segmenti proporzionali. Ad avvalersi della matematica furono anche i Pitagorici e Platone stesso, il quale diceva che se è vero che le sensazioni possono ingannarci è altrettanto vero che la matematica ci dà certezze inconfutabili. C’era la convinzione che la realtà fosse interpretabile in termini matematici. Ci si era già spesso serviti della matematica per interpretare il mondo fisico. Tuttavia, nonostante si fosse intrapreso il cammino dell’uso della matematica, con Aristotele essa passa in secondo piano dovrà aspettare il Rinascimento per tornare in auge. Viene quindi spontaneo chiedersi perché ad un certo punto il metodo matematico venga messo da parte per poi essere ripreso nel 1400 e per diventare, infine, con Galileo lo strumento principale per lo studio della realtà. Per capire il motivo di quest’abbandono durato quasi 2000 anni, va detto che per poter costruire un’applicazione sistematica della matematica è necessario avere strumenti materiali ed efficaci. L’intuizione platonico-pitagorica di interpretare la realtà con la matematica era buona, ma non avevano i mezzi idonei per farlo ed è quindi comprensibile che sia prevalso Aristotele e la sua concezione qualitativa. Gli unici campi in cui i rapporti matematici ipotizzati dai pitagorici potavano essere concretamente verificati erano quello musicale e astronomico. Nel 1400 assistiamo al recupero della matematica, che era stata lasciata in disparte da Aristotele fino al Medioevo. In primo luogo va detto che il Rinascimento è caratterizzato dal recupero dell’antichità e dal disprezzo nei confronti del periodo medievale. Di conseguenza i Rinascimentali non apprezzano Aristotele, ma preferiscono Platone, i Pitagorici e i Neoplatonici. La rinascita della matematica va quindi ricollegata all’anti-aristotelismo. Tuttavia nel 1400-1500, non c’è ancora la possibilità di una misurazione vera e propria della realtà e si fa un uso “pre-scientifico” della matematica. L’esempio più significativo è rappresentato dal tedesco Cusano: il suo punto di partenza sono le verità scientifiche delle quali si serve per arrivare a verità che vanno oltre alla scienza, verità che si possono definire metafisiche. Quello di Cusano è un uso della matematica piuttosto simile a quello di Platone, che stimava moltissimo la matematica e le attribuiva un valore propedeutico per la filosofia. Tornando a Cusano, molti altri pensatori dell’epoca si avvicinavano all’uso pseudo-matematico dei pitagorici: Giordano Bruno, che ha una concezione della matematica che sfuma con quella della magia, è uno di questi. Con il 1600 e con Galileo c’è una vera e propria rivoluzione scientifica: la matematica in questo periodo riveste essenzialmente due funzioni. Da un alto viene usata come strumento di indagine della realtà, dall’altro essa diventa modello metodologico anche per cose non strettamente quantificabili. Per quanti riguarda la filosofia, Galileo dice: «Io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perché è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può essere da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi ed altre figura matematiche, altissime per tal lettura». L’alfabeto di tale libro è quello matematico: pertanto per Galileo, prima di studiare la fisica bisogna studiare la matematica.


La differenza tra matematica e filosofia può essere rintracciata nella diversità di atteggiamento tra Galileo e Aristotele, che viene generalmente sottolineata dicendo che Galileo non si chiede né il cosa, né il perché, ma il come. E infatti da Galileo in poi, le leggi fisiche non dicono il che cosa e il perché, ma il come. Quello che in Galileo è solo un’osservazione metodologica e un sospetto metafisico, diventa un’affermazione definitiva metafisica in Cartesio, Hobbes e così via: l’immagine del mondo nel 1600 sarò essenzialmente meccanicistica.

Cartesio, che oltre ad essere grande filosofo fu anche illustre matematico, tanto da arrivare a proporre un metodo di indagine della realtà assolutamente matematico, unendo filosofia e matematica, che da sole, a suo avviso, erano inefficaci: la filosofia si occupa in modo rigoroso di cose reali, la matematica si occupa in modo rigoroso di cose non reali. Importante è anche quanto fa Spinoza una generazione dopo Cartesio, che applica all’etica il modello matematico, e Hobbes, che lo applica alla politica. Inoltre, non è affatto strano che la prima calcolatrice l’abbia inventata un filosofo, Pascal, vissuto anch’egli nel 1600, il secolo della matematica e della fisica. E il primitivo modello di calcolatrice elaborato da Pascal, verrà rielaborato e perfezionato da un altro grande filosofo del 1600, Leibniz, che si contende con l’altro grande filosofo e scienziato di quegli anni, Newton, l’invenzione del calcolo infinitesimale. Nel 1700, il filosofo scozzese Hume, giudicava la matematica «una mera relazione di idee», per lui svolgere un’espressione algebrica significa prendere il concetto in questione, analizzarlo, ed estrarne le conseguenze, con l’ovvio risultato che l’intera matematica finisce per essere nient’altro che un’enorme tautologia, in cui si esprime ciò che è implicito. Per il grande pensatore inglese novecentesco, Bertrand Russell, «la matematica non possiede soltanto la verità, ma anche la bellezza suprema, una bellezza fredda ed austera, come quella della scultura»: egli scorge nella matematica una forma di bellezza, proprio perché i passaggi matematici, nel loro vigore e nella loro freddezza, sono espressione di una verità inconfutabile e, come avevano insegnato Platone e San Tommaso, ciò che è vero è anche bello, anche se non sempre ciò che è bello è vero. Un altro grande filosofo del Novecento, Edmund Husserl, si occuperà di matematica. In che cosa consiste la differenza tra matematica e filosofia? La vera differenza che possiamo ravvisare tra di esse è che, mentre la matematica si serve dei numeri per svolgere espressioni, equazioni, sistemi e quant’altro, la filosofia si chiede se i numeri esistano o meno, proprio come fece Husserl.

Per quanto riguarda Kant, egli riconosce che matematica e filosofia hanno campi d’azione simili, in quanto entrambe conoscenze a priori, tuttavia sottolinea che l’una è una conoscenza di costruzione di concetti, mentre l’altra è una conoscenza ci concetti, il che significa che la filosofia non si distingue dalle altre scienze perchè è a priori, mentre le altre sono a posteriori. La vera distinzione tra sapere matematico e sapere filosofico risiede nel fatto che la matematica implica sempre un elemento intuitivo, la filosofia no.







BIBLIOGRAFIA



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